DELIRIO MARGINALE (2000)

ASSOCIAZIONE CULTURALE TEATRO SEGRETO
Direzione Artistica RUGGERO CAPPUCCIO

presenta

DELIRIO MARGINALE
di
Ruggero Cappuccio
Premio IDI ’93

Una notte ai margini del delirio

con
Ciro Damiano, Claudio Di Palma, Nadia Baldi

Musiche
Paolo Vivaldi

Luci
Michele Vittoriano

Le grandi crisi storiche celebrano sempre attraenti matrimoni con le città elette nell’olimpo della natura. Non le pianure aride e infeconde, ma gli aranci, le rose, lo stramonio di Napoli, quando irrigati di sangue, atterriscono con un fascino che riunisce in un sorriso l’assassinio e la bellezza.

La profanazione delle perfette armonie di giardini, mari che chiedono e offrono corpi, capricci tufacei di architetture vicereali s’amplifica fino a raggiungere il paradosso dei contrasti: il bello e la morte, dove la morte, appunto, si annida nel bello come l’alga inestirpabile nella limpidezza marina. Napoli, quanto Palermo, vivono la morte e il bello come statuto perenne della loro crisi stabile, rispondendo agli estremi della possibilità di potere e non poter essere con i due figli prediletti di ogni crisi inalienabile, ancora una volta la morte e il bello.

La rovina delle rovine urbane, sociali, epocali era ed è nei corpi di tutti oggi ancora, con la consapevolezza insita in essi di essere materialmente musei negletti e inaccessibili eternati da irreparabili e puntualissimi fenomeni eruttivi che la storia è venuta a stappare come uno champagne velenoso nella casa di chi ha avuto troppe ricorrenze da festeggiare, tutte confuse, tutte disattese, origini crudeli di un palato alcolista che non accetta più promesse di sapori. Ai margini della Seconda Guerra Mondiale, si può leggere come in un frammento del grande specchio di un popolo stratificatissimo spezzato e disperso nei suoi rituali, nelle sue convinzioni, la storia ombrosa e accecante della famiglia Villadensa. Un padre veneziano e una madre napoletana, aristocratici entrambi, gemelli di mare, opposti per giansenismo conservatore ed epicureismo scettico, costruttori di un insolito nido che ospita cinque figli. Uno di essi, Cosimo è forse un poeta, suo fratello Lorenzo ama in lui tutte le pieghe sovversive che come una crisi nella crisi affondano nell’ombra dell’incomparabilità di un vero possibile, tutte le regole, tutte le precauzioni morali, tutte le certezze. Napoli e Venezia. Lingua materna e lingua paterna. L’aristocrazia alla gogna: il teatro amplificato del difetto e dell’inutile. Un poeta rinchiuso giovanissimo tra incerte biancheggiature nel salone più alto di un palazzo seicentesco per scontare e far scontare la colpa di un tradimento. Una fraternità incerta, conflittuale, inusuale, nata sul nulla.

Gli oggetti nominati e perduti di un mondo disfatto. La reclusione spirituale in una stanza delle passioni in cui i ricordi vivono lo scempio e il magnificat di un ritorno del represso surreale e dinamitardo. Ricordare o non ricordare. Parlare o tacere. Fingere o cos’altro in questo perimetro delle passioni? La lingua di Napoli con l’occhio maligno ora chiuso ora aperto dei suoi cento padri arabi, greci e spagnoli; la lingua di Venezia, turcheria protratta e musicale; le lingue della crisi storica sprofondata in un capitolo centrale delle storiche crisi. Notte ai margini del delirio, come quegli inchiostri vergati che presso la tradizione notarile umanistica coprivano gli spazi vuoti di compravendite e testamenti con l’esercizio poetico di un giurista colto, talvolta perfino sensibile. Il delirio di due fratelli senza certezze sulla storicità del loro paese, della loro città, della loro anima, aiutati dall’ invenzione conturbante di una sorella-amante che finge per i suoi infingitori, che meraviglia i meraviglianti meravigliati, che torna come un fantasma a svelare un incesto, una fraternità troppo accesa, proibita per legge e per decoro. E l’incesto è fondamento di ogni passo su cui Napoli e le sue ascendenze mediterranee hanno costruito la loro strada inquietante, come un’infinita circumvallazione di sè che torna sul sè di partenza: Edipo con Giocasta, fratelli con sorelle, ancora la crisi, ancora il bello e l’inseparabile morte.

“Due sveglie. Cosa te ne fai?” chiede Cosimo a suo fratello Lorenzo al risveglio da un sonno che si interrompe solo per rafforzarsi. “Una suona , ma non segna bene le ore. L’altra segna bene le ore, ma non suona.” Bisogna che i giocattoli siano d’accordo perchè la ragione e l’istinto siano d’accordo, perchè siano d’accordo pagine scritte e parole suonate, perchè l’illuminismo e la magia facciano la pace, perchè il Teatro rigoverni matematica del dire e talento animale. Certi bambini piangono per manifestare la noia e il dolore che non sentono più, per dare note a quel malessere profondo che non ha ragioni apparenti. Il teatro di Napoli è una lotta contro l’insensibilità di noi stessi. Alcuni piangono per mestiere dando vita ad una lamentazione che si incarna come questua esistenziale. Altri feriti mille volte nello stesso punto, smettono di credere alle medicine miracolose e ai dolori miracolosi. Nell’impossibilità di soffrire sul serio si comincia a fingere il dolore perchè altri credano alla sublime bugia o perchè gli stessi fingitori ritrovino la possibilità di una propria sofferenza.

Il dolore insomma si può simulare anche per dolorare ancora. Ed è per questo sortilegio che Cosimo, poeta, fanciullo diabolico, vecchio infantile, costruisce simulacri dei suoi affetti, burattini recanti fattezze parentali, tarocchi col sembiante di padri, madri, fratelli. Sorge il sospetto che il dolore inflittogli dall’amore mancato sia stato così meschino da non essersi innalzato al rango della sofferenza. Ritrovarla per finzione può significare riguadagnare un’altezza. E cos’è Napoli e la sua lingua, Venezia e la sua lingua, maternità e paternità, stratificazioni intorno ad un tradimento? Cos’è Cosimo? Cosa il Teatro in lui? Cosa la memoria e il dolore nel rituale della rappresentazione? Cosa i simulacri? Cosa gli orologi della coscienza? L’infantile ricerca di una rima? Quale mostro, quale bellezza nasce nel piccolo mitreo delle passioni? Chi è il toro? Chi il sacerdote? Di chi scorrerà sangue? Non è questione di metafore. E’ questione di silenzi. Gli spazi vuoti che i pieni avvolgono sono tutti vostri, appartengono alla libertà della vostra intelligenza. E Cosimo e Lorenzo e Matilda ricalcando le volute di inchiostro di Giovanni Macchia, potranno dire con voi: “Io adoro d’essere un dilettante: ma perchè si possa coltivare il proprio dilettantismo bisogna pagarlo, e riscattarlo di continuo. Proprio come ci si riscatta da un vizio… ho vagabondato incessantemente in zone diverse, e il vagabondaggio continua. Mi sono creato volontariamente, con le mie proprie mani, la vita che non avrei voluto vivere”.

Ruggero Cappuccio