“PROVOCaZIONE TEATRO”
Benevento anno III (1999)
Teatro Comunale – Teatro De Simone
Un progetto di Ruggero Cappuccio
La sottrazione del corpo
I misteri d’amore crescono nell’anima. Ma il corpo è il libro dove i misteri d’amore restano impressi per sempre.
L’amore è certo il parente più diretto dell’immortalità. I misteri d’amore sono ad un tempo genitori e figli dell’eternità. Il corpo è gemello prediletto della morte, ma ciò che resta di esso o il ricordo intorno a ciò che di esso si dice, il ricordo, se vogliamo, della sua sparizione completa e definitiva fissano l’accensione del desiderio e l’impossibilità ad esaudirlo durante l’intero arco del sempre umano. Platone ha forse scritto il più bel libro mai concepito sull’immortalità dell’anima. Il rapporto fra l’anima ed il corpo viene raccontato coma la relazione tra lo strumento musicale e il suono prodotto grazie a quello strumento. Il suono viene proclamato equivalente dell’anima. Il corpo si assimila al complesso materico di corde e cassa armonica grazie ai quali il suono può vivere. L’immateriale si fonda sul materiale. L’inafferrabilità di una melodia nasce dall’esemplare semplicità corporea dello strumento. Morto lo strumento, il suono non è più riproducibile e tutto ciò che di quel suono ci piacerà desiderare o ricordare passerà attraverso la memoria dello srumento. Per rievocare l’astrattezza impassibile ed eterna della musica dovremo confrontarci con la concretezza corruttibile o appassita del pianoforte che la rende possibile, o che la rese possibile. E quando il pianoforte ha duecento anni troveremo tra i suoi tarli, tra i suoi diesis allentati, la suggestione della musica che seppe partorire e che adesso sarebbe impossibile ascoltare di nuovo. Un pianoforte siffatto è tomba di se stesso, corpo sepolto in sè, ricordo di un sè stesso dimenticato. Solo gli esseri animali defungono nella necessità di una sepoltura. Gli oggetti invece compiono di essi stessi una solenne autocelebrazione funeraria nel disuso. Gli oggetti spariscono quando cessano di servire a qualcosa o a qualcuno. Spariscono, però, di una strana volatilizzazione che li rende visibilmente defunti. Da quel momento diventano desueti; da quel momento spariscono dal mondo del necessario per esibire di sè tutta l’assoluta inutilità che li fa apparire al mondo della poesia. E’ sulle tracce del corpo inutile o se volete non utile che germogliano le suggestioni di questo terzo anno di passioni, indagini, messinscene ed esperimenti dentro e intorno ad un lavoro di scena che si chiama ProvocAzione Teatro. Il sipario, le lapidi, le porte, si schiudono sul panorama di un’ epifania di corpi che profumano delle violette e del mirto disciolte in essenze sulla pelle di Giulia de Caro,
cantante leggendaria e antica riamata dalla maestria medianica e sublime di Roberto De Simone. O, ancora, il corpo della parola, il corpo del gesto, il corpo dell’immagine, il corpo della voce e perfino il corpo del silenzio, possono popolare le declinazioni di studio laboratoriale curate da Claudio Di Palma, Roberto Soldatini, Tonino Accolla, Giuseppe Sollazzo, Michele Monetta. Qui i corpi vengono liberati o ritratti nella danza di uno strano sabba dove l’attore persegue la sottrazione di sè cercando di sparire rimanendo visibile, come quegli oggetti, o quegli strumenti, che non servono, meglio, che possono non servire, sottraendosi alla funzionalità dell’oggi, per divenire di sempre. Il teatro viene dunque pensato come luogo in cui l’esibizione viene annullata, come luogo in cui ricercare intorno alla bellezza di voci, corpi, gesti e segni dimenticati, significa ricercare il corpo del dire, il corpo del fare o il ricordo di un dire e di un fare in cui vive la visibilità dell’invisibile. Di Mozart, di Virgilio, di Leonardo, di Shakespeare non rimane corpo. La loro tomba non ci è nota. Il loro fine, come quello di tutta l’arte, è sempre farsi trovare dove non si è.
L’amore è certo il parente più diretto dell’immortalità. I misteri d’amore sono ad un tempo genitori e figli dell’eternità. Il corpo è gemello prediletto della morte, ma ciò che resta di esso o il ricordo intorno a ciò che di esso si dice, il ricordo, se vogliamo, della sua sparizione completa e definitiva fissano l’accensione del desiderio e l’impossibilità ad esaudirlo durante l’intero arco del sempre umano. Platone ha forse scritto il più bel libro mai concepito sull’immortalità dell’anima. Il rapporto fra l’anima ed il corpo viene raccontato coma la relazione tra lo strumento musicale e il suono prodotto grazie a quello strumento. Il suono viene proclamato equivalente dell’anima. Il corpo si assimila al complesso materico di corde e cassa armonica grazie ai quali il suono può vivere. L’immateriale si fonda sul materiale. L’inafferrabilità di una melodia nasce dall’esemplare semplicità corporea dello strumento. Morto lo strumento, il suono non è più riproducibile e tutto ciò che di quel suono ci piacerà desiderare o ricordare passerà attraverso la memoria dello srumento. Per rievocare l’astrattezza impassibile ed eterna della musica dovremo confrontarci con la concretezza corruttibile o appassita del pianoforte che la rende possibile, o che la rese possibile. E quando il pianoforte ha duecento anni troveremo tra i suoi tarli, tra i suoi diesis allentati, la suggestione della musica che seppe partorire e che adesso sarebbe impossibile ascoltare di nuovo. Un pianoforte siffatto è tomba di se stesso, corpo sepolto in sè, ricordo di un sè stesso dimenticato. Solo gli esseri animali defungono nella necessità di una sepoltura. Gli oggetti invece compiono di essi stessi una solenne autocelebrazione funeraria nel disuso. Gli oggetti spariscono quando cessano di servire a qualcosa o a qualcuno. Spariscono, però, di una strana volatilizzazione che li rende visibilmente defunti. Da quel momento diventano desueti; da quel momento spariscono dal mondo del necessario per esibire di sè tutta l’assoluta inutilità che li fa apparire al mondo della poesia. E’ sulle tracce del corpo inutile o se volete non utile che germogliano le suggestioni di questo terzo anno di passioni, indagini, messinscene ed esperimenti dentro e intorno ad un lavoro di scena che si chiama ProvocAzione Teatro. Il sipario, le lapidi, le porte, si schiudono sul panorama di un’ epifania di corpi che profumano delle violette e del mirto disciolte in essenze sulla pelle di Giulia de Caro,
cantante leggendaria e antica riamata dalla maestria medianica e sublime di Roberto De Simone. O, ancora, il corpo della parola, il corpo del gesto, il corpo dell’immagine, il corpo della voce e perfino il corpo del silenzio, possono popolare le declinazioni di studio laboratoriale curate da Claudio Di Palma, Roberto Soldatini, Tonino Accolla, Giuseppe Sollazzo, Michele Monetta. Qui i corpi vengono liberati o ritratti nella danza di uno strano sabba dove l’attore persegue la sottrazione di sè cercando di sparire rimanendo visibile, come quegli oggetti, o quegli strumenti, che non servono, meglio, che possono non servire, sottraendosi alla funzionalità dell’oggi, per divenire di sempre. Il teatro viene dunque pensato come luogo in cui l’esibizione viene annullata, come luogo in cui ricercare intorno alla bellezza di voci, corpi, gesti e segni dimenticati, significa ricercare il corpo del dire, il corpo del fare o il ricordo di un dire e di un fare in cui vive la visibilità dell’invisibile. Di Mozart, di Virgilio, di Leonardo, di Shakespeare non rimane corpo. La loro tomba non ci è nota. Il loro fine, come quello di tutta l’arte, è sempre farsi trovare dove non si è.
Ruggero Cappuccio