ASSOCIAZIONE CULTURALE TEATRO SEGRETO
Direzione Artistica RUGGERO CAPPUCCIO
presenta
ORLANDO FURIOSO
di Ludovico Ariosto
Lettura-Concerto composta e diretta da
Ruggero Cappuccio
Musiche di
Paolo Vivaldi
XXIII CANTO
con
Chiara Muti
Nadia Baldi, Francesca Gamba, Paola Greco, Nicoletta Robello, Anna Contieri, Silvia Santagata
Musicisti
Paolo Vivaldi, pianoforte
Elena Lera, violoncello
Teresa Ceccato, viola
Elisa Papandrea, violino
Francesco Loppi, oboe, corno inglese
Voce solista e tanpura
Francesca Cassio
Progetto immagini
Ciro Pellegrino
Progetto Luci
Michele Vittoriano
Segreteria organizzativa
Sabrina Codato
La luce, il tempo, lo spazio nell’Orlando Furioso di Ariosto
La luce, il tempo, lo spazio. Sono questi i tre cardini intorno ai quali si inanella la spina dorsale di una possibile espressività estetica connessa alle forme del dire l’Orlando Furioso. Nell’intero arco del poema la luce è continuamente dichiarata e negata. Le sue materializzazioni e la sua decadenza vivono di codici allusivi che si annidano nell’aggettivo inatteso scagliato in mezzo la quiete di una notte, di una stasi, di un sonno. Ariosto ricama un gioco a nascondere le fonti della luce per rivelarne gli effetti in una grammatica di preziosi fotogrammi letterari: ora si chiudono le celate degli elmi; ora sbiadiscono le cortine della ragione; ora la luce si mostra nella velocità di un cavallo ombroso che fende l’aria con la sua bizzarria, recando appunto nel radioso perimetro delle foreste tagliate, la luce della follia e se si vuole, nell’ossimoro dominante la natura dell’intero poema, la luce dell’ombra.
E’ appunto l’uso sommerso e magistrale della luce a divenire nella penna dell’Ariosto, il ponte di collegamento tra le sponde ambigue e interscambiabili dello spazio e del tempo. Il mutamento incessante dei luoghi dove regnano le azioni è connesso al mutamento del tempo. Esso si concretizza però, nella declinazione variegata dei toni cromatici in cui vivono i sentimenti dell’intero poema; quell’arte sublime dello scarto all’indietro in grado di pervenire ad una teoria del tempo ritrovato tanto cara al grande cinema di tutto il mondo con risultati di picco nell’arte di Bergman. Lo spazio e il tempo nel capolavoro ariostesco, si moltiplicano in maniera irrefrenabile, con cambi di direzione quasi infidi, ci piacerebbe dire. E la tecnica pluridirezionale di cui si nutre la scrittura è dominata dal movimento di una luce che riscalda l’azione di ironia e commozione, di ragione e pazzia, di barocchi incantesimi ed inspiegabili ingenuità. Una luce capace di celare la propria fonte attiva, sorta di sorgente ubiquitaria capace di segnalare presenza di sé nel verso più apparentemente obsoleto e transitorio.
Tra questo giganteggiare dell’azione, i protagonisti del Furioso, come già evidenziava Italo Calvino, “ Benché siano sempre ben riconoscibili, non sono mai personaggi a tutto tondo”.
Essi, ci piace rivelare in un processo di azione drammatica connessa al dire l’Orlando anziché leggerlo, sono meravigliosi strumenti di una complessa, splendida sinfonia.
La parola teatrale gioca con le leggi dell’ascolto, non con quelle della lettura, e Ludovico Ariosto, nella cura spasmodica che sottende ogni ottava, nel calibro del ritmo che si sprigiona dagli endecasillabi dove si inghirlandano storie impossibili, mostra quanta attenzione egli dedicasse alla prosodia, dando vita ad una materia che da tambureggianti e accentati cantari popolari, traeva una delle sue vene infinite. L’Orlando Furioso è, quanto meno sotto il profilo di una finalizzazione fonetica, una monumentale, sapiente, raffinatissima recensione di generi, modi, e strutture letterarie preesistenti, assunte, metabolizzate o trattate con chirurgico distacco, da chi stava lavorando, forte di una moderna maestria, ad un escavo stratigrafico di fonti tempi e gusti. Ora, nella mancanza di un solo protagonista che possa vocalmente, narrativamente e corporeamente assumersi il carico di un Orlando monoangolare, ci piacerà percorrere il tema della moltiplicazione delle voci, articolando una sequenza di letture-concerto dove l’uso plurifonetico si armonizzi nel Furioso con quella tecnica convergente che è tipica delle grandi scritture votate al dire: l’uso cioè di molti strumenti al servizio di un sentimento solo. Tratteremo i canti prescelti come piccoli gioielli sinfonici. Il proemio, la fuga di Angelica, il castello di Atlante, il sogno di Orlando e la sua pazzia, Astolfo sulla luna, costituiranno canto per canto, singole autonome partiture. Si impone irreversibilmente la parola “movimento”. Movimento musicale, certo, attivato dalle voci attoriali, dai pianoforti, dagli archi, dalle percussioni. Ma anche movimento sentimentale, emotivo. Perché qual è mai il muoversi della musica se non quello che avviene dentro lo spazio illimitato presente in ciascuno di noi e ancora, non è forse il movimento musicale un’escursione dentro e ai bordi della luce? Quella luce che nell’immobilità dell’orchestra o delle pagine del Furioso agisce energie, transiti, cesure, pause, nell’esplosione insolente degli “Allegri” e nel controllo ragionato dei “ non troppo” , fino a determinare come movimento appunto ciò che apparentemente è statico. Lavoreremo ad un Orlando Furioso in cui l’immateriale della musica nasconda la sua fonte come la luce di Ariosto. E la luce, nella purezza occidentale di Eraclito, può vivere la sua bellezza solo in ciò che chiamiamo “Movimento”.
Ruggero Cappuccio